L’ultima protesta è di questi giorni, a meno di tre settimane dal referendum sull’energia atomica. E’ esplosa in Piemonte, ma è emblematica anche per Latina e il Garigliano. Riguarda il trasporto su treni speciali, da Vercelli fino in Francia, di carichi di scorie nucleari provenienti dalla centrale di Trino e dal deposito Avogadro di Saluggia. Naturalmente la gente non contesta i viaggi in sé, verso l’impianto di trattamento di La Hague: sa bene che sono indispensabili per smaltire tutti i materiali pericolosi accumulati da decine di anni. Ma vuole essere informata. Quei trasporti per ferrovia sono ad alto rischio, tanto che le prefetture delle province attraversate hanno predisposto un complesso sistema di emergenza, con tre gradi di pericolo, per garantire interventi rapidi in caso di incidenti. Solo che gli abitanti sono stati tenuti all’oscuro di tutto: non sanno quando passano i convogli e non sanno cosa fare se scatta l’allarme. Perfino i sindaci, finora, ne hanno ricevuto comunicazione con appena uno o due giorni di anticipo: troppo tardi per qualsiasi iniziativa concreta. Il piano di sicurezza prevede, infatti, che soltanto in caso di pericolo «molto grave», il terzo livello, la popolazione «sia immediatamente informata dalle autorità locali». «Ma a quel punto – protestano molti sindaci e i comitati dei cittadini – sarà troppo tardi per poter davvero adottare forme efficaci di tutela, con il coinvolgimento degli abitanti. E’ ovvio che il trasporto si deve fare, ma la gente va avvisata per tempo». «E’ un contributo alla trasparenza su un pericolo serio», sintetizza in particolare Emilio Chiaberto, sindaco di Villar Fioccardo. Ecco il punto: trasparenza e coinvolgimento della popolazione. Lo stabiliscono, tra l’altro, precise norme europee. Ed è un problema non solo piemontese. Al contrario: è l’ennesima dimostrazione di come, in fatto di nucleare, i cittadini siano sempre gli ultimi a «sapere». Il referendum nasce anche da qui: la gente vuole essere messa al corrente e vuole dire la sua. Ecco perché questa protesta «piemontese» conta anche per Latina e per il Garigliano, le due centrali «pontine» dove restano tuttora materiali radioattivi di vario livello. Tra l’altro, anzi, la maggior parte delle scorie che stanno partendo per la Francia vengono proprio dall’impianto del Garigliano: è il combustibile trasferito a suo tempo nel deposito di Saluggia, nell’ambito delle operazioni di decomissioning. Ecco, la centrale del Garigliano. Entrata in funzione nel 1964, ha cessato l’attività nel lontano 1978, tuttavia dopo ben 33 anni di fermo il piano di smantellamento non è stato ancora completato e i costi continuano ad aumentare. La bonifica totale del sito era prevista inizialmente per il 2016, ma la data è saltata: il nuovo termine è stato fissato per il 2021, anche se la Sogin, la società che si sta occupando dei lavori, sostiene ora di poter anticipare i tempi al 2019, tra otto anni. E con i tempi è lievitato anche il costo finale: secondo notizie di stampa attribuite alla stessa Sogin, si parla di almeno 450 milioni di euro. Forse di più. Una cifra che fa saltare i preventivi di spesa resi noti nel 2004 per il decomissioning di tutti i siti nucleari italiani: le centrali di Caorso, Trino, Latina e Garigliano, il deposito di Saluggia, i due impianti del ciclo del combustibile della Casaccia a Roma, quelli di Bosco Marengo (Alessandria) e di Trisaia (Matera) e i centri o laboratori di ricerca di Pisa ed Ispra. Secondo quel «bilancio», la spesa globale, inclusa la costruzione del deposito unico nazionale per le scorie, si aggirava sui 3,3 miliardi di euro: 864 milioni per i «siti minori» e il resto, pari a circa 2,5 miliardi, per le quattro centrali più il maxi bunker definitivo per gli 80 mila metri cubi complessivi di materiali da mettere in sicurezza. Ma tenendo conto della rivalutazione dopo sette anni da quella stima e, soprattutto, se solo per il complesso del Garigliano occorrono dai 450 ai 500 milioni, appare chiaro che la previsione fatta non basterà probabilmente nemmeno per il decomissioning delle quattro centrali dismesse che, a una media di 500 milioni l’una, «si mangiano» tutti o quasi i 2,5 miliardi previsti. Resta fuori, quanto meno, il deposito nazionale, che ha un costo enorme. Secondo l’agenzia «Zona Nucleare», che si occupa specificamente di questi problemi, ad esempio, tenendo conto anche di altri oneri (come i rimborsi all’Enel e all’Ansaldo per la decisione di abbandonare l’energia atomica dopo il referendum del 1987), il costo finale dovrebbe arrivare in realtà a molto più del doppio. Un costo che pesa sulle tasche di tutti gli italiani: viene coperto con i 6 centesimi di euro su ogni kilowatt della bolletta Enel di ciascun utente. Una specie di «nuclear tax» introdotta nel maggio del 2001 da un decreto del governo Amato per venti anni, fino al 2021. Anzi, secondo altri calcoli citati sempre da «Zona Nucleare», includendo anche i prelievi effettuati fin dal 1989 sempre sulle bollette elettriche, si potrebbero sfiorare i 10 miliardi di euro. D’altra parte non c’è da stupirsi di questa spesa enorme: negli Stati Uniti, soltanto per gli studi preliminari e per il progetto del maxi deposito sotterraneo da realizzare sotto il Monte Yucca (160 chilometri a nord ovest da Las Vegas, nel Nevada) sono stati spesi 7 miliardi di dollari e per la costruzione (valutazione 2003) erano stati previsti 58 miliardi. A far lievitare i costi fino a queste cifre, a parte ritardi burocratici, contrattempi, problemi vari che non mancano mai in Italia, è in particolare proprio la mancanza del sito di stoccaggio nazionale: più passa il tempo, più aumentano le spese di «mantenimento» dei vari impianti. Inclusa ovviamente la centrale del Sabotino, a Latina, che è da anni in fase di smantellamento ad opera della Sogin e dove dal novembre del 2008 si sta realizzando un «deposito di transito»: una costruzione di 25 mila metri cubi (equivalente, per intendersi, a un palazzone con 85 appartamenti di cento metri quadrati ciascuno) destinata allo stoccaggio dei materiali radioattivi e che dovrebbe essere completato entro quest’anno. E proprio questo «deposito», insieme ai «resti» della centrale, introduce il problema della sicurezza. Quando il reattore era attivo, funzionava, almeno sulla carta, un piano di emergenza in caso di incidenti o fughe di radioattività. «Sulla carta» perché, in realtà, a Latina la popolazione non ne è mai stata neanche informata: in una situazione d’emergenza, nessuno avrebbe saputo cosa fare. Nemmeno a Borgo Sabotino, distante appena un chilometro dall’impianto. Proprio come accade ora con i treni che trasportano in Francia i materiali depositati a Trino e a Saluggia. Chiusa la centrale, di quel piano non si è neanche più parlato. Nella relazione presentata al Comune di Latina, la Sogin riserva un capitolo anche alla «sorveglianza ambientale» e, dunque, alla tutela. Si tratta, in sostanza, di una serie di indagini condotte per un raggio di tre chilometri intorno all’impianto per controllare eventuali anomalie «dal punto di vista radiologico». Nel 2008, ad esempio, la società assicura che oltre al campionamento continuo del pulviscolo atmosferico, del fall out e dell’acqua di mare sia nel canale di scarico che in quello di adduzione, sono stati fatti 4 campionamenti sull’erba, 5 sulla sabbia, 3 dei sedimenti marini, 2 sui sedimenti di acqua dolce (ad esempio, nel fiume Astura), 65 nell’acqua di falda, 1 sul latte, 2 sulla verdura a foglia larga, 2 sul pesce e 2 sui molluschi. Sempre con esiti «normali». Solo che a fare questi accertamenti è, appunto, la Sogin. Ovvero, la società controlla se stessa. «Mentre logica vorrebbe – denunciano da anni Legambiente, Greenpeace ed altre organizzazioni ambientaliste – che questo compito fosse affidato ad una autorità di sicurezza indipendente. Una commissione tecnico-scientifica autonoma, ad esempio, slegata anche dalla politica». Sembra il minimo. Eppure non risulta che le istituzioni locali, a cominciare da Comune e Provincia, abbiano mai fatto propria questa istanza.
Articolo di Emilio Drudi pubblicato su Latina Oggi 1 Giugno 2011
Immagine tratta dal sito: http://www.direttanews.it
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