domenica 6 marzo 2011

ACQUALADRONA

In questa seconda parte di quello che ci piace pensare come un quadro intorno all'acqua, un acquario quasi, tratteremo della situazione nazionale e locale delle società italiane mal gestite, ma che sono emanazioni di multinazionali francesi le quali dovranno pure interessarsi dell'intera vicenda. Ma se nella nostra lingua italica abbiamo adottato l'espressione laissez faire in francese non sarà forse un caso, più probabilmente un'eredità di vecchie abitudini colonialiste dure a morire, sembra. Il punto focale resta sempre quello, cioè che l'acqua è un bene comune, quindi, come può il sistema capitalistico farsi carico anche di ciò che non può essere prodotto? Lo stesso sistema che in meno di due secoli ci ha portati in un mondo ricco...di immondizia e scorie. Ma anche in questo caso, andiamo con ordine.

È bene specificare che le fonti del presente articolo, in cui cercheremo di inquadrare meglio la “cosa” privata che gestisce la “cosa” pubblica sul nostro territorio (che potremmo denominare cosa loro), sono tutte di pubblico dominio, per cui si tratta qui di raccolta dati e documenti, cui ovviamente saranno dati una sintesi ed un ordine specifici, ma spero tanto basti per evitare minacce legali cui il vizio ricorre spesso, se messo sotto la luce ch'egli rifugge per timore e non per modestia come fa la virtù.

Potremmo riprendere il nostro discorso da dove l'avevamo lasciato, nella Bolivia delle lotte per la “ripubblicizzazione” dell'acqua, che tuttora impegnano la popolazione a La Paz, la città sede del governo, insorta contro la multinazionale Bechtel dopo l'importante precedente di Cochabamba (Vedi http://www.peacelink.it/latina/a/10726.html). Ma fare il punto della situazione mondiale al riguardo richiederebbe un'inchiesta di dimensioni spropositate; è comunque importante evidenziare il ruolo della Banca Mondiale, che fin dall'inizio del “water shopping” delle grandi multinazionali ha spinto per “liberalizzare” le infrastrutture dei paesi considerati in via di sviluppo, conditio sine qua non per cui gli stessi Stati (dall'Oriente al Sud America, passando per l'Africa...ovviamente) avrebbero potuto avere accesso a piccoli finanziamenti, in cambio dell'“oro blu” o “azzurro” come spesso viene oggi chiamata questa risorsa vitale. Da quelle parti ormai da tempo, l'espressione “bere un bicchier d'acqua” è tutt'altro che metafora di semplicità, mentre oggi anche per noi (sfruttati di prima scelta) rischia di diventare un lusso: <<>> (Ibidem).

Così, accontentiamoci ora di dare il quadro di ciò che è accaduto e sta accadendo in Italia, sebbene anche questo compito possa risultare arduo, ci sembra doveroso partire dai problemi a noi più vicini. Infatti, come pensare di poter aiutare chi vive dall'altra parte del mondo, quando i nostri stessi diritti fondamentali: casa, lavoro, istruzione...acqua (!), sono messi in discussione dai poteri forti, dai fondi sovrani, dalle corporazioni e da tutti coloro, insomma, che vivono al di sopra del “tetto di cristallo”? Pretendere che i diritti fondamentali non restino su carta è la sfida che la mia generazione, volente o nolente, si ritrova ad affrontare.

Negli ultimi venti anni, in sintesi, la Banca Mondiale ha spinto perché le infrastrutture (e non solo) dei paesi in via di sviluppo venissero almeno in parte privatizzate, dedicando un intero settore ai denominati “public-private partnerships” (PPPs). Oggi tocca ai nuovi paesi in via di sviluppo, come l'Italia, per i quali ci vuole solo più tempo affinché raggiungano la soglia della povertà, ma di sviluppo inteso in senso inverso si parla, con la perdita della sovranità monetaria, la deregulation, il mal governo che legifera al soldo delle grandi multinazionali, le grandi sacche di precariato che si stanno sempre di più allargando in Europa, lasciano poco spazio ai dubbi sul destino che questi signori riservano per noi, gente comune. Ma torniamo al caso italiano, dell'acqua svenduta ai francesi.

È dell'inizio del febbraio 2009 la notizia che il municipio di Parigi sia riuscito a rendere di nuovo pubblica la gestione dell'acqua, <> (Confronta gli articoli di Francesco Buda, Laura Alteri, Alberico Cecchini, Patrizia Santo e Armando Marino raccolti sul sito web www.ioacquaesapone.it)

Ebbene sì, mentre il resto del mondo industrializzato si sta rendendo conto del fallimentare esperimento di privatizzazione dell'acqua, o della sua gestione, se a qualcuno fa piacere illudersi ci sia differenza, il governo italiano accoglie a braccia aperte le multinazionali esiliate dalla Francia: Suez e Veolia. Perché è illusorio pensare che l'acqua sia pubblica? Si può capire meglio forse con un esempio un po' fantascientifico: immaginate che il governo riconosca la nostra aria come irrespirabile, immaginate ora che una nuova tecnologia possa “risolvere” il problema, tipo un mega-pallone che sia in grado di ricoprire la vasta superficie della collina corese, nel nostro caso, e che sull'area di questo gigantesco pallone bianco (o trasparente magari) possano essere messi dei bocchettoni in grado di incanalare l'aria da fuori ripulita e sicura (figurarsi). Ecco, allora potremmo affermare che l'aria è un bene comune, pubblico, ma che avremmo comunque bisogno di una multinazionale che ci eroghi il servizio: è evidente il disegno criminale o no?

La privatizzazione è in primo luogo la gestione a fini privatistici del servizio idrico, che è in corso ormai da 15 anni. Dalla metà degli anni ’90 alla gestione svolta da soggetti di diritto pubblico (Aziende speciali, Consorzi tra Comuni) si sostituisce progressivamente la gestione tramite società di capitali, in particolare S.p.A., che, com’è noto, sono soggetti di diritto privato e, come recita il codice civile, vengono costituite “per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili”(Fonte: www.acquabenecomune.org)

O l’acqua è un bene comune e un diritto umano universale, da conservare per le generazioni future o diventa un bene economico soggetto alle regole della valorizzazione del capitale economico-finanziario. (Ibidem)

Per quanto riguarda invece il grado di privatizzazione: le S.p.A. a totale capitale pubblico sono dette spesso “privatizzazioni formali” mentre le S.p.A. miste e quelle private, definite “sostanziali”, sono maggiormente piegate a una logica legata al profitto. Per questo non si può sostenere che il servizio idrico non sia privatizzato perché sono solo 7 le S.p.A. totalmente private che finora (al 23 giugno 2010) gestiscono il servizio sul territorio italiano: è più chiaro e rispondente alla realtà evidenziare che dei 110 soggetti che gestiscono il servizio idrico nei 69 Ambiti territoriali che hanno affidato il servizio tutte sono società di capitali, 106 S.p.A. e 4 srl. Poi, delle 106 S.p.A., 65 sono a totale capitale pubblico, 34 miste pubblico-privato (ma comanda il privato con patti parasociali in fotocopia) e 7 totalmente private. (Ib.)

Negli anni 1996-2006 le tariffe sono cresciute di più del 60%, mentre l’inflazione, sempre nello stesso periodo, è stata di poco superiore al 25%. Gli investimenti dall’inizio degli anni ’90, quando assommavano a circa 2 mld euro/anno, sono letteralmente crollati (-2/3) ai circa 6-700 mila euro/anno dall’inizio degli anni 2000, con quello che ne consegue in termini di mancata ristrutturazione delle rete idrica e delle perdite ad essa connesse. (Ib.)

La mercificazione dell’acqua e la sua conseguente trasformazione in bisogno (invece che diritto) rende reale il pericolo di estromissione delle fasce sociali meno abbienti e costruisce una relazione più stretta tra reddito delle famiglie e possibilità di avere accesso all’acqua potabile. Non è uno spauracchio, ma semplicemente la registrazione di quanto è già avvenuto dove il processo di privatizzazione si è spinto più avanti e che è destinato a realizzarsi se il disegno di Ronchi e del governo andrà avanti. Da questo punto di vista, basta dare un’occhiata al sistema inglese, dove, assieme ad una gestione totalmente privatizzata, esiste peraltro una forte e “preparata” autorità di regolazione pubblica, l’OFWAT. Ebbene, proprio in questa situazione, oltre a forti aumenti tariffari e a una situazione di rilevanti sottoinvestimenti, si è arrivati a un record negativo di “water poverty”, l’indicatore che misura l’insostenibilità del costo della fornitura d’acqua rispetto al reddito percepito: le famiglie inglesi che si trovano in questa situazione sono ormai circa il 10% del totale. In Italia, per altro, 8 milioni di cittadini non hanno ancora uno stabile e dignitoso accesso all’acqua potabile. Quanti diventeranno? (Ib.)

Mentre l'Europa torna a pubblicizzare l'acqua dunque, l'Italia offre ovunque sul suo territorio esempi di gestione privata del servizio idrico disastrosi: nessun miglioramento delle reti idriche/colabrodo, nessun miglioramento della qualità delle acque (vedi vicenda arsenico), aumento delle bollette anche del 300 % (come in Bolivia). Che fare?

La Corte Costituzionale ha ammesso due quesiti referendari proposti dai movimenti per l'acqua. A primavera gli uomini e le donne di questo paese decideranno su un bene essenziale. La vittoria dei “sì” porterà ad invertire la rotta sulla gestione dei servizi idrici e più in generale su tutti i beni comuni.(www.acquabenecomune.org).

È un primo passo importante, quello di rendere l'acqua alla tutela dei cittadini, ma il cammino verso una gestione senza sprechi, inquinamento o profitti sarà per sempre tra le priorità di tutti i cittadini, giacché la gestione pubblica già in passato non è stata in grado di assicurare tutto questo. Chiuderei questa seconda par(e)te del nostro “acquario” con una citazione famosa e sempre calzante, quando si parla del rispetto dell'ambiente che ci circonda e a cui, è bene ricordarlo, dobbiamo la nostra stessa esistenza:

Quando avranno inquinato
l'ultimo fiume,
abbattuto l'ultimo albero,
preso l'ultimo bisonte,
pescato l'ultimo pesce,
solo allora si accorgeranno
di non poter mangiare il denaro
accumulato nelle loro banche.


(Tatanga Jota - Toro Seduto)

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